Ogni maledetto Dicembre
Ogni maledetto Dicembre
Pubblichiamo volentieri il secondo intervento letterario di Marco Innocenti sul nostro blog. Questo racconto, un omaggio a Pisa e all’amore, fa parte della raccolta che grazie a lui stiamo creando intitolata “Storie Amare e Dolci“, un regalo a tutto gli amici di Affabula amanti della narrativa. Questo progetto è figlio dell’ultimo lavoro letterario di Marco, “Firenze Amara e Dolce” pubblicato da Avagliano Editore, in vendita nelle migliori librerie e online.
Buona lettura!
Leonardo Vannucci
Per molti anni, il cinque dicembre è stato per me un giorno particolare. Era il compleanno del mio grande amore – lontano e perduto – e io lo passavo pensando a lei, immerso o forse sarebbe meglio dire impantanato nella nostalgia. Ho celebrato dolorosamente il cinque dicembre per molti anni. Questo brano fa parte di un romanzo pubblicato nel 2005, nel quale il protagonista, il mio alter ego Paolo Tarantini, pubblicitario e scrittore, si struggeva nel ricordo della sua ex. Eccolo in versione restaurata e riadattato per “Storie Amare e Dolci” come racconto su Pisa. Marco Innocenti
Era una mattina di inizio dicembre e lo specchio, mentre le forbici tagliavano e i capelli cadevano a piccole ciocche, tra il castano e il grigio, mi diceva che di tempo ne era passato.
I miei parrucchieri portavano lunghe camicie colorate a fiori. Erano grandi appassionati di fotografia. Giravano a turno il mondo, a caccia di soggetti esotici. Quella mattina era l’India a far sfoggio di immagini vivaci, appese alle pareti del loro negozio, all’angolo tra il lungarno Mediceo e via Santa Marta.
Non mi ingannano, dissi tra me. Io so leggere dentro uno specchio. Vedo il mio autunno arrivare e non saranno le camicie a fiori dei parrucchieri né le fotografie dell’India a fermarlo.
Pagai, salutai e uscii nel sole.
Quando il sole li illumina, dopo una settimana di piogge, i lungarni di Pisa sono così belli che, come gli occhi di una donna, sanno far male. Ma se questo miracolo di luce è possibile, pensai, allora ogni speranza è possibile. E forse l’Innominata tornerà accanto a me…
“La cosa più terribile che possa accadere a un uomo è l’amarezza” aveva detto John Fante, uno degli scrittori da me più amati.
Quella frase continuava a ronzare nella mia testa, come una mosca fastidiosa e imprigionata.
Poco prima di morire, ormai cieco e invalido, con le gambe amputate a causa del diabete, l’autore italoamericano aveva dettato a sua moglie Joyce uno dei suoi romanzi più belli, “Sogni di Bunker Hill”. Guarda caso, il titolo parlava di sogni. Avrei voluto abbracciarlo, John Fante. Stringerlo come si stringe un padre o un fratello. E avrei voluto che fosse là con me, quella mattina di dicembre, a camminare nel sole dei lungarni pisani.
In piazza della Berlina, gli occhi di una ragazza incrociarono i miei. Non era particolarmente bella ma aveva qualcosa; non so dire cosa. Sfilammo l’uno accanto all’altra, scambiandoci un timido sorriso.
Forse le erano piaciuti i miei capelli corti. Mi stavano bene. Davano profondità al mio sguardo. C’era voluta una bella stempiatura per farmi capire che era impossibile continuare a fare il capellone. Mio malgrado, avevo finalmente rinunciato a quei ciuffi disordinati, tirati sugli occhi, che mi facevano somigliare a Capitan Harlock. Non era stato facile tagliarli. L’Innominata mi aveva amato anche per quei capelli.
***
Quel giorno avevo preso ferie. Era il compleanno dell’Innominata e volevo starmene da solo. Per questo, quel cinque dicembre, dopo essermi fatto i capelli, vagabondavo per le strade di Pisa senza una meta precisa.
Dai lungarni arrivai in piazza Garibaldi, dove la statua dell’eroe dei due mondi guardava l’Arno e pensava ancora alla sua Anita. Poi attraversai il ponte di Mezzo in direzione di corso Italia. La strada era piena di studenti. Parlavano di esami, di seni e coseni, di diritto costituzionale italiano e comparato.
Pisa trabocca di studenti. Alcuni si lamentano di questa invasione. Dicono che i pisani, ormai, quasi non esistono più. Sarà anche vero. Ma senza di loro, che vengono dal resto della Toscana, dalla Calabria, dalla Puglia e dalla Sicilia, questa sarebbe una città decrepita e seduta sulla sua gloria come tante altre. Gli studenti sono le vene pulsanti di Pisa. Sono il sangue che le dà vita.
La storia si è presa una rivincita sulla natura. Il porto di Pisa si è interrato centinaia di anni fa. La foce dell’Arno si è spostata di qualche chilometro. Ma Pisa, grazie alla sua Università, è tornata a essere un porto di mare.
Un alieno che atterrasse a Pisa non immaginerebbe mai che l’Italia sia un paese vecchio. Anzi, forse proprio qui, in questa città sulle rive dell’Arno, cercherebbe l’elisir dell’eterna giovinezza.
In corso Italia come al solito mi fermai in libreria. Dissero che il mio ultimo romanzo era esaurito. Potevo immaginare l’acquirente tipo: donna, dai quaranta ai settanta anni. Mia madre aveva scatenato tutte le sue conoscenze, amiche ed ex colleghe della scuola. A quanto pareva, in tutta Pisa non c’era una sola maestra elementare che non avesse letto il mio romanzo.
Ma è all’imbrunire, quando i conti non tornano mai, che bisogna andare in Piazza Garibaldi, anche se non c’è da attraversare l’Arno e non ci sono posti dove andare. È la sera che bisogna stare sotto la statua di Garibaldi, nel vento freddo di dicembre, a guardar passare le studentesse. È là che bisogna stare, a cambiare pelle ai sogni; a farli scendere sulla terra per colorarli finalmente di vita, d’India e di camicie a fiori.
A questo pensavo, quel benedetto maledetto cinque dicembre, mentre il sole mi faceva una radiografia e diceva che il mio cuore era ancora pieno di sogni, speranze e illusioni.
***
Piazza dei Cavalieri era invasa da uno sciame di studenti. Molti andavano alla mensa universitaria, altri uscivano dalla Scuola Normale Superiore. Mi sedetti sui gradini di marmo della chiesa dei Cavalieri di Santo Stefano e ricordai le parole di una poesia che avevo letto da ragazzo.
Quel giorno tutta
dai pettini ai piedi
come un attore tragico un dramma di Shakespeare in provincia
ti portavo con me
ti sapevo a memoria
e girellando per la città ti ripassavo…
Chiusi gli occhi e lasciai che la luce di mezzogiorno mi baciasse le palpebre con le sue labbra tiepide e delicate.
Gli occhi chiusi mi fecero vedere un altro mondo.
La chiesa era bianchissima, tappezzata dagli stendardi vinti ai mori dai cavalieri di Santo Stefano nella battaglia di Lepanto. Eravamo l’uno accanto all’altra, all’altare. Io con i miei capelli corti appena tagliati; l’Innominata con i riccioli castani che le ricadevano sulle spalle, incorniciando un viso da Madonna.
L’organista suonò Jesus joy e Giochi proibiti.
“Paolo e Letizia, io vi dichiaro marito e moglie” disse l’officiante.
Letizia: finalmente il nome dell’Innominata era stato pronunciato. Quando fu il momento di scambiarsi l’anello, i nostri sguardi s’incrociarono, scintillando più dei flash dei fotografi. Ci demmo un bacio. L’amore con una fiammata fece un buco nell’ozono, così largo che dalla terra si poteva vedere il paradiso. Qualche angelo scese dal cielo, qualcun altro cadde, e migliaia di piume danzarono, trasportate dal vento, sopra i lungarni pisani.
Gli sposi portavano strane camicie a fiori. Paolo è un artista, uno che a modo suo è sempre andato controcorrente, sosteneva Mamma Tarantini. Dentro un abito da cerimonia si sarebbe sentito a disagio. Come ingessato. Ma in un’ora come questa l’anima non si può ingessare, ha bisogno di libertà per esprimere la sua gioia. Bisogna capirlo, il mio Paolo, ripeteva Mamma Tarantini, mentre la gente intorno assentiva. E anche la sposa sta così bene vestita a fiori. Non sembrano neanche dipinti sulla stoffa. Sembrano fiori appena colti, veri e freschi.
Qualcuno disse che la sposa sembrava quell’attrice americana, come si chiama…
Il testimone dello sposo invece era addobbato con un classico, impeccabile completo blu. Lo riconobbi quando il sogno, con un salto, direi un soprassalto, passò al rinfresco nel parco che circondava il ristorante. Era John Fante che si ingozzava di tartine e olive ascolane, bevendo prosecco. Figlio di un povero muratore italiano e di una donna tutta casa e chiesa, la sua era una fame atavica. Dardeggiava gli occhi in tutte le direzioni perché niente di quello che era sulla tavola imbandita gli sfuggisse.
Quando ebbe per l’ennesima volta la bocca piena, tutto soddisfatto si voltò verso di me; vide che anch’io guardavo nella sua direzione e gli sorridevo.
Aveva gli occhi limpidi. Il suo sguardo pareva volare, come l’ala bianca di un gabbiano.
Si avvicinò e s’aggiustò la giacca, con un gesto un po’ goffo e un po’ solenne che mi fece tenerezza.
“Che bella festa, eh?” dissi.
“Complimenti, ragazzo mio” sussurrò, posandomi una mano sulla spalla. “La sposa è bellissima. E il rinfresco non è niente male.”
Quando riaprii gli occhi, avevo ancora l’eco delle sue parole nelle orecchie. Sbattei le palpebre e sfiorai con le dita le guance appena bagnate. Lassù in cielo il sole dicembrino, bello e indifferente, splendeva senz’ombra di nubi.
© Marco Innocenti 2014
Bello, mi ha ricordato la mia vecchia Pisa…
Non è cambiato molto da allora 😉