L’Avana per principianti
Sono molto lieto di potervi offrire questo racconto di Marco Innocenti. “L’Avana per principianti” sarà il primo di una serie che l’autore regalerà ad Affabula.
Penna raffinata ed in continua evoluzione, quella di Marco Innocenti ha già vergato pagine e pagine di romanzi importanti, tra i quali spicca sicuramente quello di esordio “Contro il resto del Mondo”, edito da Baldini&Castoldi nel 2000 e vincitore del Premio EuroClub – Linus ed altri successivi di cui potete avere notizie direttamente dal suo Sito Internet.
Marco è una delle penne di Affabula a disposizione dei clienti che richiedono servizi di scrittura online ed offline e questi suoi regali letterari sono davvero un valore aggiunto per il nostro Sito Web.
Sono davvero felice di poterli condividere con i nostri lettori. Grazie Marco!
Leonardo Vannucci
Leonardo Vannucci mi ha appena detto – testuali parole: “Il blog di Affabula è a tua disposizione per scrivere quello che ti pare. Storytelling. Africa. Sport. Racconti”
Amico mio, ti ringrazio e ti prendo subito in parola; vorrei raccontare ogni settimana una città. Il mio ultimo libro, “Firenze Amara e Dolce“ edito da Avagliano Editore, raccoglie diciannove racconti ambientati nel capoluogo toscano. Su Affabula invece andremo un po’ in giro per il mondo. Si inizia con l’Avana. Si finirà chissà dove. Forse a Buenos Aires. Forse a Marrakech, in una serie che chiamerò “Storie Amare e Dolci“
Ho proprio bisogno di una boccata d’aria; voi no?
Marco Innocenti
L’Avana per principianti
“Per loro è l’inferno, per noi l’ultimo paradiso”
L’uomo che pronunciò questa frase aveva circa tre quarti di secolo. Poco dopo essere andato in pensione – una ricca pensione da dirigente di un grande ente statale – aveva piantato tutto ed era svernato ai Caraibi. A Firenze aveva lasciato la moglie e i figli ormai grandi; a Cuba aveva trovato una ragazza che poteva essere sua figlia, o la figlia di sua figlia. Si erano sistemati a Marina di Tararà, pochi chilometri fuori dall’Avana. Mare, sole e mojitos tutto l’anno. Non un brutta maniera di invecchiare.
Quella tarda mattinata di inizio gennaio ci eravamo dati appuntamento al Copacabana, un hotel noto per la sua piscina con acqua di mare, nei pressi dell’Acuario Nacional de Cuba. Dovevo consegnargli il dono di Natale di un nostro comune amico, che tramite me, dall’Italia, gli faceva avere un piccolo panettone.
“La saluta e le manda questo” dissi.
“Grazie” disse. “La prossima volta, vieni a trovarmi a Marina di Tararà.”
In realtà mi sarebbe piaciuto andarci quella mattina, a Marina di Tararà. Era la quarta volta che visitavo L’Avana e ancora non c’ero mai stato. Ma lui aveva affari da sbrigare in città e mi aveva chiesto di incontrarlo al Copacabana.
Il vecchio si offrì di riaccompagnarmi al Vedado con la sua auto.
“È una Studebaker Commander azzurra del 1958” annunciò.
Pronunciò quel nome gonfiando il petto. Era evidente che ne andava fiero. Tutto il suo aspetto dava una certa idea di orgoglio; era alto e robusto, per niente ingobbito dall’età, anche se un filo tremolante nel passo.
Durante il tragitto iniziò a farneticare di politica. Si lamentò di quanto l’Italia fosse malridotta; a suo avviso era tutta colpa del maledetto fisco che come un vampiro ci succhiava fino all’ultimo centesimo e dei giudici comunisti che perseguitavano B., l’unico capace di risollevare le nostre sorti.
Lo squadrai, quell’uomo probabilmente non troppo lontano dai suoi ultimi giorni. Aveva la pelle cotta dal sole; il suo volto era un abile intreccio di rughe e le sue mani, appoggiate al volante, erano tempestate da nei e macchie scure.
“Ritornerò in Italia apposta per votare” disse.
Pensai che era meglio se restava a Cuba.
“La sua donna quanti anni ha?” avevo domandato all’amico che mi affidava il panettone da portargli.
“Una trentina.”
“E lui?”
“Boh, forse è più vicino agli ottanta che ai settanta. Sono i suoi ultimi anni di vita e vuole passarli bene. Che male c’è?”
Non replicai. Se pensavo ai vecchi di casa mia – mio padre e i miei nonni prima di lui – nessuno mi sembrava più lontano da quell’idea: mollare tutto e iniziare un’altra vita con un’altra donna, un po’ amante e un po’ badante.
“Che male c’è?” aveva ripetuto, mentre mi affidava il panettone-regalo. Poi aveva accennato quasi distrattamente a una brutta malattia del suo amico e io avevo preferito non indagare.
***
Quando ero più giovane, fra i trenta e i quarant’anni, non concepivo che qualcuno viaggiasse fino a Cuba per trovarsi una donna più o meno a pagamento. Il mio coinquilino di allora, Bodoni, aveva ripetutamente insistito affinché lo accompagnassi nelle sue scorribande. Dopo avere trascorso un paio di vacanze natalizie in Thailandia, si era dato ai Caraibi. Ci andava un paio di volte l’anno. Diceva che a Cuba la gente era povera ma sempre allegra. Che ballavano tutti per strada. Che si potevano mangiare aragoste squisite con pochi spiccioli – cosa fondamentale, per un buongustaio come lui. E soprattutto, che bastava uno sguardo o uno schiocco di dita per rimorchiare una bella ragazza; bianca, nera o mulatta.
Quando decidemmo di andare ad abitare insieme, per dividere i costi dell’affitto, Bodoni aveva appena compiuto quarant’anni Aveva un matrimonio fallito alle spalle, un lavoro niente male nel marketing e una pancia che sembrava una montagna arrotondata conficcata nel suo ventre.
Era almeno quaranta chili in più del suo peso forma e, a quanto pareva, non aveva alcuna intenzione di dimagrire; ogni sera si metteva ai fornelli per cucinare cene luculliane. Nel giro di pochi mesi ingrassai anch’io. Ma continuai a ignorare i suoi inviti a viaggiare con lui. Per come la vedevo, Bodoni era uno di quegli uomini di mezza età che, non potendo più permettersi donne giovani e belle in Italia, sceglievano la via più semplice – e anche la più discutibile moralmente.
Sapevo bene come stavano le cose. Bodoni me lo aveva candidamente spiegato. Tutte le cubane che andavano a letto con gli stranieri chiedevano qualcosa in cambio: denaro, vestiti, sigarette, ricariche telefoniche. Tuttavia, distingueva tra chi lo faceva in modo sfacciato e chi in modo più discreto.
Concordato il “do ut des”, le chicas caraibiche non si comportavano come prostitute ma come normali fidanzate. Non erano rare quelle in cerca di un marito. Molti uomini le portavano via da Cuba e se le sposavano. Un po’ come incartare carne fresca e portarsela a casa.
Conoscendo bene Bodoni, ero sicuro che non le maltrattasse e che si tenesse alla larga dalle minorenni; tuttavia mi appariva altrettanto chiaro che approfittasse senza troppi scrupoli della sua condizione di occidentale benestante. Poi si legò a una ragazza dell’Avana e iniziai a vedere le cose sotto un punto di vista leggermente diverso. Non disse mai di essersi innamorato ma non avevo bisogno della sua confessione per capire che in quella storia c’era dentro fino al collo.
La ragazza non era una jinetera a caccia di stranieri.
Bodoni l’aveva adocchiata per strada, chiamata e invitata a mangiare. Lei aveva accettato. Naturalmente, la poveretta non aveva il becco d’un quattrino. Viveva con la mamma, un nipotino e un cane di stazza grande nel barrio del Vedado, costruito alla fine del 1800 e un tempo riservato alle classi più agiate, noto per i suoi grandi hotel, come il Meliá Coiba e il Riviera. La famigliola abitava all’ultimo piano di un palazzaccio bianco e azzurro, parecchio fatiscente. Ce n’era una schiera, tutti uguali; probabilmente li avevano costruiti i sovietici verso gli anni sessanta.
Se l’edificio era terribile, l’appartamento si presentava più che decoroso. Il soggiorno aveva una grande finestra vista mare che lo inondava di luce. Forse anche questo aveva fatto breccia nel cuore di Bodoni, che per tanti anni aveva abitato a Marina di Pisa, in una villetta stile Liberty con la finestra affacciata sul mare.
Il buon vecchio Bodoni iniziò a fare progetti di vita. Pensò di trasferirsi all’Avana e ristrutturare l’appartamento della sua donna per farne un paladar, uno di quei ristorantini privati riservati ai turisti e ai cubani con un po’ di soldi. Aveva sempre avuto la vocazione del cuoco. Cucinare – e anche bere e mangiare – lo appassionava ben più del marketing. Ma improvvisamente cadde in disgrazia. Perse il lavoro. E con esso lo stipendio. Il suo conto in banca – non era mai stato quel che si dice un risparmiatore – si prosciugò presto e si ritrovò senza una lira. Non aveva più la disponibilità economica necessaria ad allestire il paladar. Gli mancavano anche i soldi per volare a Cuba. Glieli prestai io. Quanto bastava per andare, sbrigare le ultime pratiche e portare la sua donna in Italia.
Non fu una storia a lieto fine. La ragazza esitava. Forse non se la sentiva di lasciare la sua casa, la sua isola, la sua vecchia madre.
Litigarono furiosamente, come il mare davanti al Malecón che quel giorno era in burrasca. Bodoni si mise a urlare; la ragazza ribatté, poi si portò le mani al viso e scoppiò a piangere. Lui sbatté la porta senza neanche voltarsi indietro. Ancora non sapeva che non l’avrebbe mai più rivista. Passò i restanti giorni cubani sputtanando – letteralmente – il denaro che gli avevo prestato.
Questa storia mi insegnò una cosa che avrei dovuto già sapere e che avrei imparato meglio per esperienza diretta nei miei viaggi a Cuba. “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nasce l’amor”. Potremmo paragonare gli occidentali in cerca di donne cubane agli avvoltoi che volteggiano sul Torreón de la Chorrera, pronti a planare sui rifiuti in riva al Malecón. Ma un sentimento può sbocciare ovunque, anche nel cuore di un rapace e della sua vittima – o se volete, della sua esca. Un amore impuro, imperfetto, eppure non meno vero di tanti altri. Nel caso di Bodoni e della sua linda habanera, l’amore non soltanto era nato; era anche morto.
***
Gli anni passarono. Finché, un giorno di fine agosto, presi anch’io un aereo e volai all’Avana per una settimana di vacanza. Ormai avevo raggiunto l’età che aveva il mio ex coinquilino Bodoni quando, per la prima volta, era stato a Cuba. Ero single, proprio come lui. Nel tempo, la mia natura romantica si era progressivamente mescolata a una buona dose di cinismo. Il mio ultimo amore, se così vogliamo chiamarlo, si era consumato in poche settimane. Malgrado la brevità della vicenda ero riuscito a farmi parecchio male; sentimentalmente parlando, sono sempre stato altamente specializzato in sofferenza.
Dato che non avevo legami, potevo godermela, andare a letto con tutte le ragazze che volevo. Ma nutrivo seri dubbi sulla mia capacità di spassarmela in un posto come quello. In fondo al cuore, la mia speranza era tutt’altra: nelle strade ombreggiate del Vedado, nelle sale ammiccanti del Rincón del Bolero, nelle spiagge incandescenti di Santa María del Mar, sognavo di incontrare la donna della mia vita. Non ero soltanto un romantico e un cinico. Ero anche un eterno sognatore. Un illuso incallito. Come tale, mi condannavo a restare per sempre un principiante della vita. Tutto sommato era una pena dolce; la speranza, anche quando è vana, è comunque una gran bella cosa.
Prima di partire, avevo cercato di contattare qualche ragazza cubana in chat per prepararmi il terreno. Impresa non facile, dato che a Cuba l’accesso a internet aveva, e ha, molteplici ostacoli; tuttavia ero riuscito a procurarmi un contatto promettente con una chica che, a giudicare dalla foto, non era niente male.
Non la chiamai subito. Arrivai un sabato sera. Presi una camera all’Hotel Presidente, al Vedado; mi scrollai di dosso la stanchezza del lungo viaggio con una doccia e scivolai nella notte cubana. Presi un taxi fino al Paseo del Prado ed entrai nel Prado y Neptuno, il ristorante italiano che Bodoni aveva eletto a suo rifugio habanero.
Mentre attendevo che il cameriere mi assegnasse un tavolo, mi guardai intorno, sentendomi goffo e spaesato. Sotto le basse lampade a soffitto, illuminati da tenui luci verdognole, c’erano più italiani che cubani. La maggior parte di loro era vestita con camicia bianca sbottonata sul petto e maniche lunghe arrotolate. Alcuni erano in gruppetti di soli uomini, altri in compagnia di ragazze cubane tirate a lucido.
Mangiai spaghetti alla carbonara – la cucina cubana poteva aspettare –, bevvi un caffè per combattere il sonno e rientrai all’Hotel Presidente. La hall era popolata da turisti occidentali accompagnati da signorine locali. Gli uomini avevano età variabili, dai trenta ai sessanta e oltre; le donne erano tutte giovani e piacenti. Mi chiesi da dove fosse saltato fuori tutto quel ben di Dio. Per un istante mi sentii l’unico uomo solo al mondo.
Non avevo voglia di andare a dormire. Uscii sulla veranda dell’albergo e notai una ragazza mulatta, giovane e piuttosto carina, da sola a un tavolino. Sedetti al tavolino accanto e accesi una sigaretta. Lei mi sorrise e mi chiese da accendere. Aveva uno di quegli improbabili nomi cubani – “Miladys” o “Misleydis” o qualcosa del genere – che non sono mai riuscito a memorizzare. Parlammo un po’, lei disse che lavorava in un negozio di abbigliamento del Centro Avana ma quel che guadagnava non le bastava neanche per campare. Avrei imparato presto quel ritornello.
Poco dopo, prendemmo un taxi e filammo verso casa sua. Ci fermammo in un baretto dove mi fece comprare una mezza dozzina di lattine di birra, come se fossimo invitati a un party. In realtà la festicciola non era così allegra. Abitava poco lontano; la strada era buia e dissestata e la palazzina in stile coloniale pesantemente diroccata, come se l’avessero bombardata da poco. C’era un grande silenzio, a parte il lontano abbaiare di un cane.
Salimmo due rampe di scale nell’oscurità quasi totale e la ragazza bussò a una vecchia porta. Aprì una donna sui cinquant’anni – ma era più probabile che ne avesse quaranta portati male – che giudicai troppo diversa da lei per essere sua madre. La donna si sforzò di sorridere ma le uscì a stento una smorfia. Aveva i denti marci. Chiese una birra e sedette su una sgangherata sedia a dondolo, bevendo a garganella, mentre io e la ragazza ci sistemavamo accanto a lei, su un divano che sembrava sul punto di spaccarsi in due.
La ragazza mi presentò come il suo nuovo fidanzato, tenendomi la mano. La donna tentò ancora di sorridere, con il risultato di prima. La ragazza lasciò la mia mano e mise la sua sul cavallo dei miei pantaloni. Strizzò.
Certe volte avevo sognato di incontrare una prostituta e innamorarmi di lei ma nella realtà non c’era nulla di romantico. Per un attimo, benché Bodoni mi avesse detto e ripetuto che L’Avana era una città sicura, pensai che mi avrebbero dato una botta in testa, derubato e ucciso. Mi chiesi perché mai mi fossi cacciato in una situazione simile. La risposta era banale: non avevo voglia di finire la prima notte cubana da solo, mentre tutti quei tipi dell’Hotel Presidente se la spassavano.
Le mie paure erano soltanto paranoie. Mezz’ora dopo ero nella mia confortevole camera d’albergo, al sicuro e con cinquanta pesos convertibili in meno nel portafoglio.
“Vuoi essere il mio fidanzato?” mi aveva chiesto la ragazza.
Le dissi che sarei andata a trovarla la mattina seguente in negozio; non lo feci mai. Non era una questione morale. Non c’entrava niente il fatto che fosse una jinetera e che mi avesse chiesto soldi. Semplicemente, non avevo voglia di rivederla.
A distanza di anni ripenso ancora a quella sera. Fu la mia prima esperienza con le donne di Cuba. Un mondo a sé, impossibile da mettere a fuoco con occhi occidentali, perché i suoi contorni non sono così nitidi, di qua le brave ragazze, di là le cattive. Come in certi dipinti, tutto cambia a seconda della distanza, della prospettiva da cui si osserva. Se poi si finisce dentro la scena del quadro…
L’indomani chiamai la ragazza della chat. Fu la mia prima novia cubana: bionda, con due brillanti occhi verdi e uno scintillante sorriso. Aveva circa trent’anni e una laurea in ingegneria. Si era trasferita nella capitale da Pinar del Rio per motivi di lavoro. Insomma era quella che si potrebbe definire una ragazza normale. Anche il nome era normale.
Viveva in un appartamento al settimo e penultimo piano di un fatiscente palazzo dell’Habana Vieja. Le scale per arrivarci erano buie, strette e ripide. Più che una salita, mi sembrò una scalata. Arrivammo al pianerottolo. Proprio di fronte alla porta del suo appartamento, il cane dei vicini aveva fatto la cacca.
L’appartamento era piccolo; una cucina, una camera e il bagno. Nonostante fossero quasi le undici di sera il caldo era ancora soffocante. La ragazza accese il ventilatore e mi offrì un bicchiere d’acqua. Mi affacciai alla finestra in cerca di un filo di vento. Da lassù si vedevano i tetti della città vecchia. Il cielo era stellato.
“Sei mai stata all’Ambos Mundos?” chiesi.
“No.”
“Era l’albergo di Hemingway. Ho letto che hanno conservato la sua camera così com’era.”
“Lo so, è famoso. All’ultimo piano c’è una terrazza dove si può bere e mangiare.”
Ti piacerebbe andarci?”
“Sì.”
“Domani ci andremo.”
Andammo anche da molte altre parti, nei pochi giorni del mio soggiorno cubano. La portavo al mare, quando non lavorava, e le offrivo pranzi e cene al ristorante – ma quelli li ho sempre pagati alle mie ragazze, anche in Italia, anche in ogni altra parte del mondo.
Facevamo l’amore in casa sua. In albergo non potevo portarla – alloggiavo all’Hotel Presidente ed era proibito introdurre ragazze cubane in camera. Non mi chiese mai un peso né con le parole né con lo sguardo. Quando partii mi regalò un grande libro illustrato sulla vita di Hemingway a Cuba. Un pezzo d’antiquariato, credo. Mi dette anche una calamita a forma di boccale di birra, da attaccare al frigo, e un quadretto ligneo su quant’è bello fare l’amore.
La ricordo come se fosse ieri, la mattina presto in cui ci siamo salutati, sotto casa sua; lei con il suo caschetto rosso, in sella alla sua motocicletta scalcagnata, mentre si gira un’ultima volta, mi manda un ultimo bacio e s’avvia al lavoro, con il motore che scoppietta bizzoso, minacciando di rompersi a ogni istante.
***
Imboccammo il sottopassaggio di río Almendares e sbucammo sul lungomare all’altezza del Torreón de la Chorrera.
“Può lasciarmi qui” dissi.
Il vecchio accostò l’auto al marciapiede. Scesi e gli strinsi la mano.
“Grazie ancora per il disturbo” ripeté.
“Grazie a lei per il passaggio.”
“Vieni a trovarmi a Marina di Tararà, quando ritorni a Cuba. Così ti faccio vedere dove abito.”
La Studebaker Commander azzurra del 1958 ripartì, con l’uomo al volante e il panettone nel bagagliaio.
Mi guardai intorno. Non c’era un’anima. Il Malecón ribolliva sotto il sole di mezzogiorno e non avevo nessun programma in particolare. La mia ragazza lavorava fino a metà pomeriggio in un ambulatorio di Marianao. Decisi di andare al bar della Chorrera, ordinai una cerveza fresca e mi sedetti sotto un ombrellone, con il mare davanti agli occhi.
© Marco Innocenti 2014
Buongiorno Marco Innocenti. Grazie infinite è bellissimo !
Ho già letto che continuerai con questi racconti e ti ringrazio anticipatamente, adoro leggere ed imparare !
Serena giornata e buon lavoro.
Un abbraccio !
Grazie anche a te Leonardo Vannucci fantastica iniziativa. Abbraccione,
Spero essermi ricordata come entrare ! mah memoria ballerina
Non posso che applaudire questa iniziativa. Bel racconto. Per gli amanti dell’Avana, suggerisco la “Trilogia sporca dell’Avana”, di Pedro Gutierrez.
Grazie molte per i vostri commenti. Prossimamente un nuovo racconto di Marco ma anche l’apertura al Sociale, grazie al rapporto che avremo con una grande ONG con la quale collaboreremo per progetti di salute alimentare in Africa, e all’Arte, visto che apriremo una galleria di artisti che attualmente non hanno visibilità in Rete ma che vogliono proporre le loro opere “al mondo”.
Insomma, parecchie cose di cui parlerò nel mio prossimo blog.
Grazie a tutti…
Ti ringrazio molto Leone Timido e spero che anche i prossimi racconti siano di tuo gradimento. Ne approfitto per farmi un po’ di pubblicità e ricordarti che il mio nuovo libro, “Firenze Amara e Dolce”, è in libreria e nei bookshop online. Un caro saluto,
Marco.